L'occhio vuole la sua parte
PUBBLICAZIONE: 7 dicembre 2007 - in Biblioteca http://ulisse.sissa.it
Un codice dei colori per i non vedenti
Lidia Beduschi
Etnoscienza, Università Ca' Foscari, Venezia - a.a. 2004-2005
E-mail: lidia.beduschi@libero.it
ABSTRACT: “L’occhio vuole la sua parte”, mi diceva Pilar (il nome è di fantasia) mentre insieme cercavamo di costruire una descrizione adatta ai non vedenti del “San Giorgio e il drago” di Masaccio.
PAROLE CHIAVE: Neurologia, percezione
“L’occhio vuole la sua parte”, mi diceva Pilar (il nome è di fantasia) mentre insieme cercavamo di costruire una descrizione adatta ai non vedenti del “San Giorgio e il drago” di Masaccio.
Pilar è una ragazza cieca secondaria, ricorda i colori, anche se mi riferisce che nei suoi sogni ora le appaiono “metallici” e “fosforescenti”, e ha lavorato con me nel 2004, straordinaria collaboratrice, alla costruzione del primo prototipo di tavolette in legno di un codice dei colori per non vedenti. Ha preso parte anche ad una lezione del mio corso di Etnoscienza sul tema “I colori del buio” che ho tenuto a Ca’ Foscari nell’anno accademico 2004/05.
Il corso, su uno dei temi più frequentati e ancora intriganti dell’etnoscienza, mirava a verificare la convinzione diffusa che nella nostra cultura occidentale ormai l’idea del colore si era trasformata in un concetto astratto: non è così. E questo ci ha consentito di portare avanti il progetto di costruzione di un codice culturale dei colori per i ciechi primari e secondari.
La conferma che la percezione del colore, anche nelle persone normovedenti, si struttura a partire da dati esperienziali, emozionali, mnestici, e che dunque non c’è una totale differenza tra le modalità che concorrono a costruire l’inventario culturale dei colori tra vedenti e non vedenti è assai importante: la sinestesia può funzionare, e di fatto funziona per entrambi. Di qui sono (siamo: io, Pilar, un amico tiflologo cieco primario) partita per costruire un codice sinestesico dei colori condiviso allo stesso modo tra non vedenti primari e secondari e vedenti.
Perché sinestesico? Intanto la psicologia della percezione cominciava a spogliare la sinestesia della sua veste di eccezionalità (la “malattia di Kandinskij” era in realtà un fatto comune), e poi Pilar stessa mi confermò nella convinzione che quella fosse la strada giusta da percorrere quando mi disse che il primo senso che si era sviluppato in lei dopo la perdita della vista era stato l’olfatto. (si veda in “Ulisse” 07/11/2007 “Le basi comuni di vista e olfatto”, e tra i tanti saggi di neuroscienze che ormai escono sul tema della Brain Plasticity si può leggere il divulgativo Train Your Mind. Change Your Brain, di Sharon Beagley, Ballantine Books, New York, 2007)
Odorare il cielo, ascoltarne il suono, sentirlo sotto le dita. In ordine: odorare, ascoltare, toccare.
Il punto di partenza non poteva essere che la percezione culturale del colore (non quella fisica o neurofisiologica) come la sola adatta alla costruzione di un codice attivo in cui il soggetto non vedente potesse mettere in gioco tutti i sensi “normali” (non mi piace la definizione di “sensi residui”, e ho appreso che non ci sono “sensi compensativi”. Vedi i numerosi articoli sull’argomento in”Tiflologia per l’integrazione”, la rivista della Biblioteca Italiana Ciechi) nel processo sinestesico che lo vede partecipe dall’inizio.
A confortare la scelta sta lo studio etnoscientifico di Brent Berlin e Paul Kay (Iidem, 1969, Basic Color Terms, Berkeley, University of California Press; molti altri ne sono seguiti sull’argomento, fondamentali i lavori di Conklin, ma per il mio lavoro iniziale quello scelto era necessario e sufficiente). I due studiosi analizzarono i cromonimi in uso in diverse culture, partendo dalla constatazione che i membri di ognuna condividevano una medesima visione del colore, segmentavano cioè lo spettro in modo simile in alcune aree fondamentali che oramai sono comuni a tutte le culture e che variano da due a undici. Per di più il fuoco di un colore, cioè il suo punto di saturazione, appare ampiamente condiviso nella dimensione culturale. La sequenza delle aree è culturalmente ordinata e governata da un principio evolutivo: dal primo stadio a due colori (nero/bianco) si passa ad un secondo stadio (rosso), ad un terzo (giallo/verde), ad un quarto (blu), ad un quinto (marrone), infine ad un sesto stadio (viola/rosa/grigio/arancione).
Ulteriori ricerche degli stessi studiosi e di altri portarono a ridefinire, senza tuttavia invalidarlo, il quadro esposto (alcune culture, ad esempio la giapponese, non distinguono il blu e il verde, si trovano cioè nello stadio del “blerde” come si dice in etnoscienza, corrispondente grosso modo al nostro turchese), che è quello che abbiamo deciso di adottare per la costruzione del primo device in legno e del conseguente procedimento di associazione sinestesica di odori, suoni e percezioni aptiche.
Devo precisare una cosa importante: l’opzione per la percezione culturale del colore è motivata prioritariamente dalla considerazione, maturata ascoltando e interrogando non vedenti primari, che il percorso scelto per la costruzione del codice degli undici colori di base coincide di fatto con il percorso che i non vedenti compiono per costruirsi l’idea del “loro” colore preferito. Non un procedimento studiato per i ciechi ma con i ciechi, il cui apporto è stato e sarà fondamentale in ogni ulteriore sviluppo del procedimento.
Prima di passare alla descrizione del device prototipo e del suo uso iniziale, occorrono ancora alcune precisazioni.
Il codice a undici colori ( e la sua estensione a trentatre in via di realizzazione attraverso l’aggiunta delle “sfumature” più chiaro, più scuro per ciascuno di essi, la base per la selezione dei colori che ho adottato è la Munsell Chart), come tutti i codici, è convenzionale e arbitrario come dimostra la sua motivazione culturale (del resto la prima scomposizione dello spettro solare presentata da Newton nel 1669 comprendeva cinque colori, rosso, giallo, verde, blu e viola; nel 1671 furono aggiunti l’arancione e l’indaco a raggiungere il numero di sette, numero carico di significati simbolici nelle nostre culture; in realtà sappiamo bene che lo spettro solare è un continuum segmentabile in migliaia di sfumature). Proprio la sua convenzionalità e arbitrarietà, diciamolo pure, la sua culturalità, ci consente l’associazione con altri codici altamente culturali come quelli degli odori (e sapori), come con codici, come quello dei colori, in cui “natura” e “cultura” si incrociano, i suoni, e le percezioni tattili.
A questo punto ci attende un lungo e paziente lavoro di ricerca etnolinguistica e di psicologia della percezione per far sì che ad ogni colore sia sinestesicamente associato uno ed un solo odore, uno ed un solo suono, una ed una sola percezione tattile per ogni diversa cultura, secondo quanto avviene pressappoco nella trascrizione delle lingue in cui l’IPA (International Phonethics Alphabet) si ispira al principio di un suono, un segno. Questo dato è ovviamente fondamentale per la funzionalità del codice sinestesico e dovrà necessariamente prendere in considerazione le differenze culturali ( per intenderci e per fare un solo esempio, il caso citato del “blerde” nella cultura giapponese).
Il primo device costruito è costituito da trentatre tavolette in legno di cm.4 X cm.8 (una misura scelta insieme al tiflologo) che ripetono su tre file contenute in un vassoio pure di legno aperto sul lato inferiore, tre serie degli undici colori base. La superficie di ciascuna tavoletta è semplicemente rivestita da una carta adesiva (seta per il viola!) degli undici colori, e porta sul margine inferiore sinistro un contrassegno aptico che identifica il colore. In un primo tempo tale contrassegno era costituito da una figura geometrica (triangolo, quadrato ecc.) che è poi stata sostituita da un codice a punti di tipo Braille, poiché mi avvertiva il tiflologo che era “rischioso” proporre forme geometriche già note: il colore poteva fissarsi percettivamente ed essere identificato come forma, facendo cadere il procedimento sinestesico. Abbiamo costruito allora un codice convenzionale a punti che identifica ciascun colore e che permette con l’aggiunta di altri punti in posizioni determinate, di indicare “più chiaro”, “più scuro”. Abbiamo scartato l’ipotesi di riprodurre in alfabeto Braille il nome del colore poiché questa scelta avrebbe compromesso la possibilità di comunicare facilmente tra non vedenti di lingue diverse, ed anche perché sarebbe risultato impossibile l’adattamento del codice a punti ad esprimere altre sfumature di colore.
Il passo successivo è stato quello di associare a ciascuno degli undici colori la percezione olfattiva e aptica di una sostanza (ancora una volta non una forma): ad esempio il nero è stato associato all’odore e alla percezione tattile di carbone sminuzzato. Più complessa è risultata l’associazione del suono: molto “artigianalmente” abbiamo proceduto in via provvisoria con l’associare una nota o un accordo in chiave di sol, chiara o scura, su un pianoforte, a ciascun colore. Il tutto è risultato ancora molto rudimentale ed anche in buona parte approssimativo, ma funziona.
Ultimo passo importante nella costruzione della percezione del colore, anche se in questo caso la sinestesia non c’entra più (ma è un’esigenza sottolineata dai non vedenti) è stata la produzione di un microracconto evocativo per ogni colore.
La sequenza dell’apprendimento percettivo di ogni colore di base risulta quindi così costituita nel device prototipo:
- ascolto del microracconto registrato su nastro con voce naturale (i sintetizzatori vocali non sono adatti ad esprimere la funzione connotativa del racconto);
- manipolazione della tavoletta e riconoscimento del codice colore;
- percezione sinestesica olfattiva, tattile e sonora;
- ritorno alla tavoletta e identificazione delle tre tavolette dello stesso colore nel vassoio.
Ovviamente è necessario un buon allenamento per giungere al riconoscimento sicuro degli undici colori e per poterli usare, come fece Pilar, per costruirvi mosaici, o addirittura quadri approssimativi in quanto alla forma, che evocassero colori di un paesaggio primaverile.
A questo punto ci si potrebbe chiedere quale ragione abbia motivato la scelta di ricercare una via per la percezione del colore per i non vedenti, quando già sono numerose e avanzate le tecniche sviluppate per la percezione aptica di opere d’arte non solo plastiche. Una risposta ovvia è che noi vediamo il mondo a colori, che questo è ben presente sempre anche ai non vedenti. Un’altra risposta più attuale ce la suggerisce lo sviluppo delle neuroscienze, cui abbiamo accennato più sopra. La più esaustiva sta però proprio nell’affermazione di Pilar: quando si parla di dipinti “l’occhio vuole la sua parte”, lì dove il colore è nello stesso tempo forma. Così anche per la fotografia, l’illustrazione. La stessa narrazione scritta è “colorata”. Inoltre la sinestesia e la scoperta della stretta parentela tra vista e olfatto, ha ribaltato in parte la supremazia del tatto come senso privilegiato. Un cieco, specie se precoce, non tocca spontaneamente, il tatto va lungamente addestrato, lo vediamo bene oggi nella giusta preoccupazione per l’abbandono frequente dell’insegnamento del codice Braille. Credo fermamente che il futuro della percezione estetica per i non vedenti stia nella percezione sinestesica che, senza escludere il tatto, mette in primo piano i sensi più immediati dell’olfatto e dell’udito.
Concludo questo breve scritto con una importante osservazione di Yvette Hatwell ( tratta dal suo articolo “I processi della percezione e delle rappresentazioni aptiche. Implicazioni per la comprensione aptica delle opere d’arte da parte dei minorati della vista”, in “Tiflologia per l’integrazione”, n.1, gennaio –marzo 2004): “In un’analisi degli atteggiamenti degli editori ed ideatori di materiale artistico per ciechi, Martinez-Sarocchi (Hatwell&Martinez-Sarocchi, in fase di stampa) contrappone due orientamenti. Secondo il primo, è l’aspetto cognitivo delle opere ad essere privilegiato. Per evitare il “verbalismo” contro cui lottano educatori ed insegnanti, la riproduzione in rilievo è alquanto semplificata rispetto all’opera originale e un testo in Braille (ovvero un’audiocassetta) spiega le intenzioni e il percorso dell’artista (cfr. ad esempio Le Ninfee di Monet). Questo agevola la discriminazione e l’interpretazione delle forme, ma sfocia di rado in un sincero piacere estetico. (…) Un altro orientamento privilegia, invece, l’accesso all’emozione estetica. Le opere pittoriche vengono allora riprodotte in rilievo quasi nella loro integralità, per cercare di trasmettere al non vedente l’intenzione reale dell’artista. Ma i risultati non sono sempre quelli sperati, soprattutto nel caso dei non vedenti precoci che vengono spesso tratti in inganno dalla complessità dell’opera che stanno esaminando col tatto. (…) . Dato che il non vedente è obbligato ad utilizzare costantemente il tatto come funzione “cognitiva” d’acquisizione delle conoscenze, egli è meno incline all’impiego della modalità aptica per espletare la propria funzione estetica”.
Siamo a conoscenza dei numerosi tentativi di avvicinare i ciechi alla percezione del colore, ma crediamo che il primo passo debba essere quello della creazione di un codice dei colori condiviso tra tutti i non vedenti e ugualmente con i vedenti. Di qui già abbiamo iniziato a lavorare sul percorso della percezione figura/sfondo. Grandi possibilità saranno offerte dalle tecnologie ICT più avanzate, sia per la fruizione individuale, sia per allestimenti museali accessibili.