Lascio nuovamente la parola ad Asher Lev: « Una domenica pomeriggio, portai la matita e il mio album nel soggiorno e disegnai mia madre seduta sul divano. Disegnai la curva cascante delle spalle e della schiena, l'avvallamento del petto, gli ossuti steli delle braccia incrociate in grembo, l'inclinazione della testa sulla spalla e il sole in pieno negli occhi. Non sembrava essere infastidita dal sole. Era come se dietro ai suoi occhi non ci fosse nulla che il sole potesse infastidire. Non mi riusciva di ritrarre il suo viso. La guancia del lato destro cadeva bruscamente dall'alto zigomo formando un'incavatura. L'ombreggiatura a matita non mi veniva bene. Vi erano gradazioni d'ombra che la matita non riusciva a catturare. Provai una volta, niente. Usai la gomma. Poi provai di nuovo e di nuovo usai la gomma, ma allora il disegno era sbavato e il tratto assottigliato qua e là. Lo misi da parte e su un nuovo pezzo di carta disegnai ancora una volta il profilo del corpo di mia madre e i contorni interni delle braccia. Lasciai per un momento il viso in bianco, poi disegnai gli occhi, il naso e la bocca. Non volevo usare di nuovo la matita. Il disegno appariva incompleto. Mi infastidiva averlo incompleto. Chiusi gli occhi e guardai il disegno dentro di me, ripercorsi con la mente i contorni ed era incompleto. Riaprii gli occhi. Ai limiti del mio campo visivo, vidi il portacenere sul tavolo accanto al divano. Era pieno di mozziconi di sigarette fumate da mia madre. Osservai quegli scuri mozziconi schiacciati. Senza far rumore andai verso il portacenere, lo avvicinai alla mia sedia, lo misi per terra. Poi, tenendo in grembo l'album con il disegno e facendo ben attenzione, passai l'estremità bruciata di una sigaretta sul viso di mia madre. La cenere lasciò una brutta sbavatura. Strofinai la macchia con il mignolo. Si sparse facilmente, lasciando un velo grigio. Usai la cenere di un'altra sigaretta. Il velo grigio si fece più denso. Lavorai a lungo. Usai la cenere sulla parte della spalla che non era in luce e sulle pieghe della vestaglia. I contorni del suo corpo cominciarono a prendere vita.» (p. 81)
Asher Lev non si limita a riprodurre la realtà: la trasforma, le dà vita, forzandola a rispondere ai requisiti dettati dalla sua interiorità. Oggi i ragazzi non si fidano abbastanza delle loro possibilità di trasformare creativamente il reale e questo basso livello di autostima li induce a non discostarsi molto da una riproduzione fotografica delle cose. Un codice sinestesico dei colori, attivando corrispondenze possibili tra sensazioni di ordine diverso, permetterebbe di cercare un significato nascosto dietro l'apparenza superficiale dei fenomeni: potrebbe insegnare a vedere, non solo a guardare. Aiuterebbe i ragazzi a descrivere il mondo circostante in maniera personale, interiore e pregnante, facendo emergere le caratteristiche soggettive di ciascuno e favorendo l'esplorazione di possibilità inedite del linguaggio. Oserei dire che stimolerebbe anche la tolleranza reciproca, dato che non vi sarebbe motivo di asserire che una sensazione del rosso sia più rispondente di altre alla realtà dei fatti. Ho saputo che nelle scuole per attori viene proposto un esercizio chiamato «il colore della voce»: consiste nel modulare la tonalità espressiva della voce per rappresentare con essa i diversi colori corrispondenti. Questi esercizi favoriscono il reciproco potenziamento dei sensi, contribuendo a scardinare il primato della vista che, al giorno d'oggi, si concretizza molto spesso in un'assenza di realtà, a vantaggio di un mondo virtuale impalpabile, a torto ritenuto anche indolore.
Quanto ai non vedenti, il codice sinestesico dei colori rappresenta un veicolo suggestivo e significativo di integrazione. Mette a contatto due mondi ancora tenuti a distanza da pregiudizi e tabù, non sempre dichiarati, molto spesso solo inconsci, ma comunque difficili da estirpare. Permette di comprendere che l'essenza non fisica, ma culturale dei colori può essere condivisa, perché nasce da un fondo comune fatto di emozioni, sentimenti, esperienze vissute. Rassicura il non vedente, che pure deve avere a che fare con i colori nella sua vita quotidiana, del fatto che può essere legittimato a parlarne anche se non li percepisce, può familiarizzare con loro, farseli amici, ospitandoli a buon diritto entro zone di esperienza più familiari. Il codice sinestesico dovrebbe essere appreso dai bambini non vedenti già in età prescolare, in modo da entrare a far parte del loro bagaglio concettuale e conoscitivo, per poi strutturarsi successivamente nel corso degli anni, arricchendosi di altri elementi associati con criteri di affinità derivanti da una rielaborazione personale. Solo così, ciechi e vedenti potranno spalancare gli occhi su una tavolozza di colori: e saranno gli occhi della mente, gli unici in grado di scrutare e scorgere l'infinito.