NON SOLO BUIO:
LA SENSAZIONE DEL COLORE NEI CIECHI PRIMARI
di Daniela Floriduz *
Ciechi primari e colori: un binomio inconciliabile?
Partiamo da un dato di realtà, talmente scontato ed evidente che sarebbe quasi tautologico volerlo ribadire: i non vedenti dalla nascita non possono percepire fisicamente il colore. Se ci atteniamo ad una descrizione puramente fisiologica e biologica, infatti, possiamo affermare che la percezione del colore non è altro che la capacità del sistema oculo-cerebrale di decodificare una particolare lunghezza d'onda, che viene poi definita e classificata secondo la categoria di un determinato colore, al quale viene assegnata un'etichetta verbale e linguistica, in modo da poter essere condiviso e riconosciuto da tutti i parlanti "vedenti".
Il colore, dunque, non sarebbe un'idea innata, facente parte del nostro patrimonio genetico acquisito con il Dna; lo sosteneva già il filosofo John Locke, padre dell'empirismo classico inglese, il quale, nel 1694, scriveva: «Infatti mi si concederà facilmente, credo, che sarebbe incongruo supporre che le idee dei colori siano innate in una creatura alla quale Dio ha dato la vista e il potere di riceverle con gli occhi dagli oggetti esterni; e non sarebbe meno irragionevole attribuire molte verità alle impressioni della natura o ai caratteri innati, quando possiamo osservare in noi stessi facoltà adatte per acquisire una conoscenza di esse altrettanto facile e certa come se fossero originariamente impresse nel nostro spirito.» (Locke, p. 14).
Per suffragare ulteriormente queste considerazioni, potrei citare anche la mia personale esperienza, in particolare quella onirica. L'estate scorsa, ho collaborato con una ricercatrice dell'università di Bologna, registrando per lei i miei sogni ogni mattina, appena sveglia,analizzandoli sulla base di un questionario che mi era stato fornito. L'esperimento aveva la durata di quattordici giorni. Tra i ricordi onirici strappati alla mia memoria notturna, non figuravano assolutamente elementi cromatici. Sono non vedente dalla nascita a causa di una malformazione retinica fetale, quindi non ho mai avuto una percezione visiva del colore. Tuttavia, in uno di questi sogni, ricordo che stavo imbrattando un cartellone con dei colori a dita: ne sentivo l'odore dolciastro e pungente, la consistenza sui polpastrelli, l'effetto di porosità lasciato dalla pasta colorata sulla carta. Il sogno mi suscitava sensazioni di grande libertà, collegate all'esperienza infantile: attorno a me, infatti, vi era un gruppo di bambini vocianti, il cartellone era steso sul pavimento, la situazione era ludica e priva di inibizioni. Certamente, non ricordo quali tinte stessi usando, forse perché, non riconoscendole nella vita reale, non posso neppure trasferire a livello onirico i contenuti di questa mancata esperienza.
Sulla base di queste considerazioni, si potrebbe ritenere che l'indagine sul rapporto tra ciechi primari e colori sia una ricerca oziosa e accademica. Si potrebbe affermare che i ciechi primari siano abilitati a parlare del colore solo per via metaforica, peraltro cadendo in quel verbalismo linguistico tanto stigmatizzato dai tiflologi come poco concreto, fuorviante rispetto all'esperienza reale, al punto da indurre nel non vedente una sorta di autismo cognitivo. Si potrebbe pensare che, anche supponendo di assegnare valore di verità a questa "esperienza" traslata e metaforica del colore da parte dei ciechi primari, essa non aggiunga nulla all'universo percettivo dei normovedenti, per i quali l'idea del colore, pur essendo secondaria, per usare il lessico di Locke, cioè frutto di una modificazione dei nostri sensi in presenza di un dato oggetto, manterrebbe comunque un carattere di universalità e "oggettività", poiché derivante comunque dall'esperienza.
Nel breve spazio di questa relazione, proverò a gettare un'altra luce su queste considerazioni in apparenza tanto evidenti da non aver bisogno di argomentazioni, utilizzando in parte alcune letture personali, ma, soprattutto, servendomi di riflessioni tratte dal mio vissuto.
* Daniela Floriduz è nata a Pordenone nel 1972. Ha frequentato le scuole dell’obbligo e il liceo nella sua città. Nel 1996 ha conseguito la laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Trieste e nel 2003 ha ottenuto il titolo di Dottore di Ricerca presso lo stesso Ateneo. Attualmente insegna Storia e Filosofia presso il Liceo Scientifico “Ettore Majorana” di Pordenone. E’ vicepresidente della locale sezione dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti ed è membro della Commissione Nazionale Uici per la tutela dei diritti degli insegnanti.
Diciamo innanzitutto che anche i non vedenti primari hanno a che fare con i colori fin dall'infanzia. L'integrazione scolastica mette a contatto il bambino non vedente, già dalla scuola materna, con compagni normovedenti che amano e usano i colori per disegnare, per descrivere il mondo e se stessi, per effettuare paragoni poetici e ludici. Il mondo dei bambini è molto colorato. Affinché il colore non rappresenti l'ennesima barriera mentale e linguistica che si frappone alla comunicazione con i compagni vedenti, il bambino cieco dalla nascita deve presto acquisire familiarità con questo illustre sconosciuto. Crescendo, verrà a contatto con i colori leggendo testi letterari, imparando a scegliersi i vestiti, utilizzando espressioni metaforiche come "sono rosso di vergogna" o "verde di rabbia".
Presso i centri tiflotecnici sono disponibili apparecchi chiamati colour test: sono dotati di una piccola telecamera e di una voce sintetica. Una volta appoggiati ad un tessuto o ad altre superfici colorate, questi strumenti ne vocalizzano il colore. In tal modo è possibile, ad esempio, conoscere la tinta della maglietta che si intende indossare al mattino. Questi apparecchi, in realtà molto utili nella vita pratica, non entrano però nel merito – né pretendono di farlo – del rapporto del non vedente primario con il colore. Riconoscere in modo meccanicistico le tinte di una stoffa, sapere che il sole è rosso al tramonto, sciorinare tutto lo spettro dei colori primari e secondari, rischia di essere un esercizio estrinseco, un'ulteriore incombenza che il non vedente deve sobbarcarsi per adattarsi ad una realtà che presenta molte opacità e zone ignote. Infatti, mentre al vedente il mondo viene incontro, le cose note lo rassicurano, quelle ignote lo incuriosiscono, per il non vedente vi è un limite di oscura e confusa indeterminatezza prima di entrare in rapporto con le cose, anche le più familiari.
Il colore, invece, deve e può essere a poco a poco interiorizzato anche dai non vedenti, entrando a far parte del loro vissuto. Già l'analisi della carta di identità rivela dei dati cromatici, dal colore degli occhi a quello dei capelli, che servono a qualificare la persona caratterizzandola rispetto ad altre. Tenendo conto di questi dati, è necessario imparare a scegliere i vestiti e gli altri accessori che più si intonano alle caratteristiche fisiche. La ricorrenza statistica dei giudizi formulati dai vedenti può essere un utile indicatore a tal proposito: si configura, infatti, come un elemento che concorre all'apprendimento per imitazione. Mi sono spesso sentita dire: «l'azzurro ti dona» e ho avvertito la necessità di conferire un significato psicologico, prima che descrittivo, a questa affermazione. La nostra identità, è vero, si struttura anche a partire dal riconoscimento altrui e dalle mode, ma rappresenta, anche nei suoi tratti esteriori, una forma di vissuto totalmente personale. Ecco perché l'azzurro per me non rimane un elemento astratto, ma, nell'indossarlo, penso di emanare un senso di benessere e di armonia, cosa che non mi accade, ad esempio, con il giallo.
Si potrebbe dire che questo modo di parlare dei colori senza averne fatto esperienza, rappresenti un utilizzo indebito del linguaggio. Le parole, però, non hanno solo una funzione comunicativa e descrittiva della realtà: permettono, ad esempio, di evitare di compiere ogni volta esperienza diretta degli oggetti, come quando si parla di eventi accaduti nel passato, quindi non più esperibili, o talmente lontani dalla nostra collocazione geografica da non poter essere conosciuti in diretta. Molti parlano dell'America senza esserci mai stati o del cavaliere medievale senza averne mai incontrato uno. Il linguaggio parla anche di ciò che non potremo mai verificare e che pure la scienza ammette come ipotesi, ad esempio del big bang cosmico. Secondo il filosofo Wittgenstein, un cieco può tranquillamente parlare di ciò che non vede, senza essere considerato un illuso, un superstizioso o un sognatore. Scrive infatti Wittgenstein: «Un cieco può dire che è cieco e che le persone intorno a lui vedono. "Sì, ma allora con le parole "cieco" e "vedente" non intende qualcosa di diverso da quello che intende chi vede?" Su che cosa si basa il fatto che si voglia dire una cosa del genere? Ebbene, se uno non sapesse che aspetto ha un leopardo potrebbe tuttavia dire e capire "Questo posto è molto pericoloso, qui ci sono leopardi".» (pp. 129-130). Il linguaggio, dunque, permette a tutti noi, ciechi e vedenti, di conoscere ciò che non possiamo “toccare con mano”, diventa un surrogato eccezionale e sorprendente dell'esperienza diretta, senza che si configuri come astratto e privo di senso. Il canale visivo rimane prioritario per la percezione del colore, ma quest'ultimo, oltre a non essere esiliato dal mondo dei non vedenti, può anche acquistare una valenza inedita quando i ciechi ne parlano, senza per questo perdere le connotazioni di fondo usate comunemente dai vedenti per definirlo.
Ma è così facile definire i colori?
Gli esseri umani non hanno avuto bisogno soltanto di trovare dei nomi che qualificassero le diverse tonalità cromatiche: hanno sentito anche la necessità di parlare di «colori caldi» e di «colori freddi»,di tinte forti o tenui, riposanti o cariche, di accostamenti che assomigliano ad un «pugno in un occhio»… Come districarsi tra le miriadi di sfumature di cui è costellato il mondo? Pensiamo soltanto a un caso come quello del verde: verde acqua, bottiglia, smeraldo, oliva o acido. Spesso, ascoltando i vedenti discutere di colori, da perfetta analfabeta cromatica quale sono, mi è capitato di pensare: «ma mettetevi d'accordo!».
Però so che l'accordo è impossibile. Vi sono culture, come quelle orientali, che associano il bianco al lutto; altre nelle quali alcune tonalità sono proprio assenti, come la distinzione tra blu e verde in alcune popolazioni giapponesi. Ci sono persone vedenti che non sanno abbinare i colori, però si sentono perfettamente a proprio agio in questa disarmonia, ne fanno uno stile di vita. Il discorso potrebbe inserirsi nell'eterna querelle, che si trascina da secoli in campo estetico e filosofico, sull'esistenza di un presunto canone di bellezza universale.
Gli studi più recenti di psicologia della percezione sono giunti alla conclusione, forse scontata ma mai ribadita abbastanza, che dietro un occhio c'è sempre un cervello, il quale non solo decodifica, ma interpreta, seleziona, filtra, costruisce, analizza, gioisce o inorridisce: in una parola, pensa. Paola Bressan, nel suo testo intitolato "Il colore della luna", scrive: «L’espressione “costruire il mondo” può sembrare una licenza poetica, ma non lo è affatto.
Quando vi guardate attorno non avete l’impressione di costruire le cose, ma di guardarle: le cose stanno lì fuori e hanno quell’aspetto, indipendentemente dal fatto che voi le guardiate o no. Ma questa sensazione è dovuta unicamente al fatto che siete esperti e veloci nel costruire. Sicuramente non avete nemmeno l’impressione di trovarvi su una palla sospesa nel vuoto che ruota alla velocità di millesettecento chilometri all’ora (all’equatore), eppure è proprio così che stanno le cose». (p. 119).
Dunque, anche il colore è inserito in quella rete di significati che costituisce il nostro mondo, significati che richiedono, di volta in volta, di essere non solo registrati, ma anche interpretati.
Asher Lev è un bambino ebreo di Brooklyn, attraverso cui l’autore che gli dà vita, Chaim Potok, forse ha voluto adombrare il pittore Chagall. Il mondo, visto dagli occhi di Asher Lev, diventa raffigurazione pittorica: nelle sue mani, le cose e le persone si trasformano in plasticità di forme e in varietà di colori. Ma in una cultura come quella ebraica ortodossa, apertamente ostile alle raffigurazioni e alle immagini, la sua vocazione incontrerà notevoli ostacoli, specie quando egli tenterà di dipingere le crocefissioni. In ogni caso, Asher Lev si interroga sulla valenza sinestetica del colore, per poterla poi trasferire nelle sue opere artistiche. « Restai seduto al tavolo, guardando il latte nel bicchiere. Il ghiaccio è bianco, pensai. Bianco come il latte. No, non bianco come il latte. C'è dell'azzurro nel ghiaccio. E del grigio. […] “Di che colore è la sensazione del freddo?” chiesi. La signora Rackover smise di asciugare la tazza che teneva fra le mani e mi guardò sbalordita. "Eh?" disse. "La sensazione del freddo", mi sentii dire, "è la sensazione del buio". […] Il ghiaccio è color azzurro, grigio e bianco, pensai. Poi pensai, no, non è azzurro, grigio e bianco. Non so che colore è. Mi secca non saperlo. Ero turbato e provavo dentro di me un senso di irritazione. Di che colore è il ghiaccio? Mi agitai sulla sedia. […] In camera mi stesi sul letto con gli occhi chiusi e pensai all'uomo che veniva dalla Russia. Vidi la sua faccia distintamente: gli occhi nervosi, il naso a becco, i lineamenti sciupati. Quella faccia aveva vissuto undici anni in una terra di ghiaccio e oscurità. Non riuscivo a immaginare cosa volesse dire vivere nel ghiaccio e nell'oscurità. Mi coprii gli occhi con le mani. Ecco la sua faccia, nitidissima; non proprio la sua faccia, ma quello che sentivo io riguardo alla sua faccia. Disegnai il suo volto dentro la mia testa. Andai alla scrivania e su un foglio di carta bianca pulito disegnai come mi sentivo io rispetto alla sua faccia. Disegnai il kaskett. Non usai colori. La faccia mi fissò dal foglio. Tornai a letto e mi stesi a occhi chiusi. Ora dentro di me c'erano ghiaccio e oscurità. Sentivo la fredda oscurità insinuarsi lentamente dentro di me. Sentivo la nostra oscurità. Mi sembrò così che fossimo fratelli, io e lui, che tutti e due conoscessimo delle terre di ghiaccio e oscurità. La sua era nel passato; la mia era nel presente. La sua era fuori di lui; la mia dentro di me. Sì, eravamo fratelli, lui e io, e in quel momento mi sentii più vicino a lui che a qualsiasi altro essere umano nel mondo.» (pp. 35 ssgg).
Asher Lev ha bisogno di chiudere gli occhi per raffigurarsi ciò che non riesce ad immaginare e per attingere alla parte più intima e segreta della realtà. Ma Asher Lev è anche un cultore magistrale della sinestesia. Questo fenomeno ha cessato da tempo di essere considerato una sindrome, una patologia o un'esperienza tipica esclusivamente degli artisti e dei poeti. Certo, in letteratura e musica si annoverano illustri e stupefacenti casi di sinestesie: Rimbaud, nella poesia Vocali, associa ad ogni vocale un colore, non soltanto sulla base del suono, ma anche delle suggestioni evocative contenute sia nel colore che nella vocale stessa. Baudelaire, nella lirica Corrispondenze, afferma l'intrinseca affinità elettiva tra colori, profumi e suoni. Il compositore russo Skrjiabin, nel Prometeo, associa i suoni ai colori: lo fa fondandosi su basi scientifiche, come la struttura fisica dello spettro luminoso. Alla nota "do" Skrjiabin associa il rosso, al "sol" il rosso o l'arancione, al "mi" il blu o il viola. In precedenza, nel 1739, il gesuita Padre Catel aveva tentato di avvicinare la musica ai sordi immaginando un clavicembalo oculare che, combinando colori attraverso lampade e vetri colorati, suggerisse l'idea delle combinazioni musicali.
La sinestesia è un fenomeno assai più diffuso di quanto si pensi: che cosa ne sarebbe, ad esempio, di un film di Dario Argento senza la terrificante colonna sonora che lo accompagna? Il profumo di una rosa ne esalta il colore, mentre una top model dalla voce sgraziata risulterebbe addirittura meno attraente.
Certo, ogni senso è autonomo nel proprio ambito operativo: non è possibile infatti, ad esempio, vedere leteralmente suoni con gli occhi. Ma, come afferma Marco Mazzeo nel suo saggio assai documentato sulla sinestesia, «la stimolazione di un senso fa scattare automaticamente una percezione in una seconda modalità senza che questa sia stata stimolata direttamente.» (p. 266). La nostra percezione non è affatto monosensoriale: le vie d'accesso al mondo, come notava già Max Scheler, sono molteplici: «Da un lato, i sensi sono diversi tra loro poiché ciascuno interroga a modo proprio il mondo che ci circonda e permette di accedere a dimensioni d'esperienza non completamente sovrapponibili.» (Scheler, p. 303). Infatti il vedente non può illudersi di riprodurre il mondo del cieco semplicemente chiudendo gli occhi. Tuttavia, la consapevolezza della percezione sinestesica, oltre a scardinare il primato plurisecolare della vista nella mentalità occidentale, potrebbe dotare la stessa capacità visiva di una maggiore pregnanza e consapevolezza, gettando uno «sguardo nuovo» su ciò che significa «vedere».
All'età di cinque anni, mia nipote Francesca, nel mostrarmi i suoi magnifici disegni colorati, era convinta che io potessi percepirne anche le tinte attraverso il tatto ed era riuscita a fornire persino una stupefacente giustificazione a questa sua credenza, espressa nella frase: «Le tue mani ti dicono com'è tutto». Si dice che i bambini siano simili ai poeti: di certo, utilizzano le sinestesie come mezzo di esplorazione della realtà attraverso iperboli, metafore e simboli. In realtà il colore è per sua natura impalpabile, per cui, anche se di fatto è possibile sentire al tatto la sottile patina rilasciata da un pastello o le striature della tempera su una tela, non si possono però distinguere le diverse tonalità attraverso i polpastrelli delle dita. L'approccio sinestesico al colore può essere effettuato attraverso l'olfatto, il gusto e l'udito. Scrive infatti Mazzeo: «La fenomenologia del gusto è più vicina all'olfatto che a quella dell'udito; l'udito ha dimensioni comuni probabilmente più con la vista che con il tatto (la percezione a distanza, ad esempio) e così via.» (p. 292).
Qual è stato il mio personale approccio al colore? Nell'infanzia giocavo continuamente con pennarelli, pastelli, colori a cera e a dita. Mi piacevano l'odore emanato dalle sostanze coloranti, soprattutto degli evidenziatori e dei pennarelli indelebili e amavo toccare l'alone che le matite colorate o i pennarelli lasciavano sulla carta. Ho frequentato le scuole con compagni normovedenti: la legge 517 del 1977 sull'integrazione scolastica era appena stata approvata quando ho iniziato la prima elementare. Credo che la mia insegnante di sostegno considerasse il colore non solo un'esperienza inclusiva con i vedenti, ma anche un modo particolare per sviluppare la mia motricità fine. Infatti mi faceva riempire l'interno di una figura punteggiata con la matita colorata, dovevo stare attenta a non lasciare spazi liberi, a distribuire uniformemente il colore in tutta la superficie. Questo è un esercizio utilissimo per spalmare, rivestire una superficie, esplorare piccoli spazi, non uscire dai margini.
Solo al liceo, però, ho sviluppato consapevolmente la mia idea dei colori, in seguito ad alcune lezioni di educazione artistica sulla distinzione tra colori primari e secondari. Mi sono accorta che studiare e comprendere quella lezione sarebbe stato per me improponibile, se non avessi cercato di associare i colori a qualcosa di più familiare alla mia esperienza. Naturalmente, l'abbinamento non avrebbe dovuto essere casuale, ma affondare le radici in quel già noto che mi derivava da letture, discorsi ascoltati e sensazioni strappate all'inconscio e rimaste per lunghi anni in attesa di essere chiamate per nome. Da allora, la strutturazione di queste associazioni non è mutata di molto ed ha contribuito a fare dei colori una realtà concettuale plastica e icastica nella mia mente, nonché una presenza quotidiana, che a volte mi interroga e a volte mi stimola, come quando scelgo abbinamenti neutri per i vestiti, nel timore di azzardare accostamenti strani o come quando avverto di non poter uscire senza un filo di trucco sul viso, sia pure leggero.
Ecco le personali associazioni che ho elaborato:
Lascio nuovamente la parola ad Asher Lev: « Una domenica pomeriggio, portai la matita e il mio album nel soggiorno e disegnai mia madre seduta sul divano. Disegnai la curva cascante delle spalle e della schiena, l'avvallamento del petto, gli ossuti steli delle braccia incrociate in grembo, l'inclinazione della testa sulla spalla e il sole in pieno negli occhi. Non sembrava essere infastidita dal sole. Era come se dietro ai suoi occhi non ci fosse nulla che il sole potesse infastidire. Non mi riusciva di ritrarre il suo viso. La guancia del lato destro cadeva bruscamente dall'alto zigomo formando un'incavatura. L'ombreggiatura a matita non mi veniva bene. Vi erano gradazioni d'ombra che la matita non riusciva a catturare. Provai una volta, niente. Usai la gomma. Poi provai di nuovo e di nuovo usai la gomma, ma allora il disegno era sbavato e il tratto assottigliato qua e là. Lo misi da parte e su un nuovo pezzo di carta disegnai ancora una volta il profilo del corpo di mia madre e i contorni interni delle braccia. Lasciai per un momento il viso in bianco, poi disegnai gli occhi, il naso e la bocca. Non volevo usare di nuovo la matita. Il disegno appariva incompleto. Mi infastidiva averlo incompleto. Chiusi gli occhi e guardai il disegno dentro di me, ripercorsi con la mente i contorni ed era incompleto. Riaprii gli occhi. Ai limiti del mio campo visivo, vidi il portacenere sul tavolo accanto al divano. Era pieno di mozziconi di sigarette fumate da mia madre. Osservai quegli scuri mozziconi schiacciati. Senza far rumore andai verso il portacenere, lo avvicinai alla mia sedia, lo misi per terra. Poi, tenendo in grembo l'album con il disegno e facendo ben attenzione, passai l'estremità bruciata di una sigaretta sul viso di mia madre. La cenere lasciò una brutta sbavatura. Strofinai la macchia con il mignolo. Si sparse facilmente, lasciando un velo grigio. Usai la cenere di un'altra sigaretta. Il velo grigio si fece più denso. Lavorai a lungo. Usai la cenere sulla parte della spalla che non era in luce e sulle pieghe della vestaglia. I contorni del suo corpo cominciarono a prendere vita.» (p. 81)
Asher Lev non si limita a riprodurre la realtà: la trasforma, le dà vita, forzandola a rispondere ai requisiti dettati dalla sua interiorità. Oggi i ragazzi non si fidano abbastanza delle loro possibilità di trasformare creativamente il reale e questo basso livello di autostima li induce a non discostarsi molto da una riproduzione fotografica delle cose. Un codice sinestesico dei colori, attivando corrispondenze possibili tra sensazioni di ordine diverso, permetterebbe di cercare un significato nascosto dietro l'apparenza superficiale dei fenomeni: potrebbe insegnare a vedere, non solo a guardare. Aiuterebbe i ragazzi a descrivere il mondo circostante in maniera personale, interiore e pregnante, facendo emergere le caratteristiche soggettive di ciascuno e favorendo l'esplorazione di possibilità inedite del linguaggio. Oserei dire che stimolerebbe anche la tolleranza reciproca, dato che non vi sarebbe motivo di asserire che una sensazione del rosso sia più rispondente di altre alla realtà dei fatti. Ho saputo che nelle scuole per attori viene proposto un esercizio chiamato «il colore della voce»: consiste nel modulare la tonalità espressiva della voce per rappresentare con essa i diversi colori corrispondenti. Questi esercizi favoriscono il reciproco potenziamento dei sensi, contribuendo a scardinare il primato della vista che, al giorno d'oggi, si concretizza molto spesso in un'assenza di realtà, a vantaggio di un mondo virtuale impalpabile, a torto ritenuto anche indolore.
Quanto ai non vedenti, il codice sinestesico dei colori rappresenta un veicolo suggestivo e significativo di integrazione. Mette a contatto due mondi ancora tenuti a distanza da pregiudizi e tabù, non sempre dichiarati, molto spesso solo inconsci, ma comunque difficili da estirpare. Permette di comprendere che l'essenza non fisica, ma culturale dei colori può essere condivisa, perché nasce da un fondo comune fatto di emozioni, sentimenti, esperienze vissute. Rassicura il non vedente, che pure deve avere a che fare con i colori nella sua vita quotidiana, del fatto che può essere legittimato a parlarne anche se non li percepisce, può familiarizzare con loro, farseli amici, ospitandoli a buon diritto entro zone di esperienza più familiari. Il codice sinestesico dovrebbe essere appreso dai bambini non vedenti già in età prescolare, in modo da entrare a far parte del loro bagaglio concettuale e conoscitivo, per poi strutturarsi successivamente nel corso degli anni, arricchendosi di altri elementi associati con criteri di affinità derivanti da una rielaborazione personale. Solo così, ciechi e vedenti potranno spalancare gli occhi su una tavolozza di colori: e saranno gli occhi della mente, gli unici in grado di scrutare e scorgere l'infinito.
BRESSAN P., Il colore della luna. Come vediamo e perché, Laterza, Roma-Bari, 2007.
LOCKE J., Saggio sull'intelligenza umana, Laterza, Roma-Bari, 1951.
MAZZEO M., Storia naturale della sinestesia, Quodlibet, Macerata, 2005.
POTOK C., Il mio nome è Asher Lev, Garzanti, Milano, 1991.
SCHELER M., La posizione dell'uomo nel cosmo ed altri saggi, Armando, Roma, 1987.
WITTGENSTEIN L., Zettel, Einaudi, Torino, 1986.